Storia

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~Metziel~™
view post Posted on 25/8/2009, 12:34




Le origini , Meazza, gli scudetti di Foni


Nata di marzo. Femmina, diversa, unica. Nata da un atto di rivolta, una ribellione calcistica che si ritroverà lungo tutta la sua storia quasi centennale. Nata in un ristorante, nel centro di Milano, un locale che allora - era il 1908 - radunava gli intellettuali della città. Era la sera del 9 marzo.

La sera del 9 marzo 1908, un gruppo di dissidenti del Milan Cricket and Football Club decide di fondare una nuova società. Alla base della scelta l'insoddisfazione e la voglia di lavorare con criteri diversi, meno rigidi. È così che inizia la storia dell'Inter o, per essere precisi, del Football Club Internazionale di Milano. I soci fondatori sono il pittore Giorgio Muggiani, Boschard, Lana, Bertolini, Fernando De Osma, Enrico, Carlo e Arturo Hinterman, Pietro Dell'Oro, Ugo e Hans Rietman, Voelkel, Maner, Wipf e Carlo Ardussi. E' la preistoria del calcio, c'è incertezza su molti particolari, la stessa grafia dei nomi Maner e Rietman è dubbia. Certa, invece, la nomina del primo presidente, Giovanni Paramithiotti, veneziano di nascita, mentre il pittore Muggiani assume la carica di segretario e inventa lo stemma: le sigle "FCIM" intrecciate in campo oro, chiuso da due cerchi, uno nero e uno azzurro, i colori della notte e del cielo.

Nel 1909 Ettore Strass subentra a Paramithiotti. Poi la presidenza passa a Carlo De Medici e, nel 1910, arriva il primo scudetto, strappato alla Pro Vercelli dopo un velenoso spareggio. La formazione: Campelli; Fronte, Zoller; Yenni, Fossati, Stebler; Capra, Peyer, Peterly, Aebi, Schuler. Allenatore Virgilio Fossati. Nomi di eroi in bianco e nero, con indumenti sportivi molto vicini a quelli civili dell'epoca, protagonisti su campi spelacchiati, in stadi difficili da immaginare oggi. I giornali dell'epoca concedevano poco spazio al calcio. Gli ha reso onore la storia più della cronaca.

Nel 1912 prende la presidenza Emilio Hirzel per un periodo di normale amministrazione. Nel 1914 il comando passa prima a Luigi Ansbacher e poi a Giuseppe Visconti di Modrone, che resta in carica per cinque anni, coprendo il tempo caotico della Grande Guerra. Passato il periodo difficilissimo dei bombardamenti, degli atleti morti sul fronte per rispondere alla chiamata della Patria, l'Inter riesce a recuperare la grinta, la voglia di sognare e di far sognare. I tifosi aumentano, il nerazzurro diventa una bandiera, la Milano dei "bauscia" comincia a differenziarsi da quella dei "cacciaviti" rossoneri. Nel primo torneo di Campionato organizzato nel dopoguerra l'Inter vince il secondo scudetto, dopo aver battuto il Livorno per 3-2. È il 20 giugno 1920 e sono trascorsi dieci anni dal primo trionfo. La formazione: Campelli: Francesconi, Beltrami; Milesi, Fossati II, Scheidler; Conti, Aebi, Agradi, Cevenini III, Asti. Allenatore Nino Resegotti.

Dopo Giorgio Hulss e Francesco Mauro, nel 1923 sale alla presidenza Enrico Olivetti. Durante il successivo periodo fascista, non piace l'apertura "internazionale" che deriva dal nome della squadra. E così, nell'estate del 1928, viene annunciato l'accordo di fusione con un'altra società della città, l'Unione Sportiva Milanese. Il nome cambia in Società Sportiva Ambrosiana (da Sant'Ambrogio, patrono di Milano dopo esserne stato Vescovo). Inizialmente cambia persino la maglia (bianca, segnata dal Fascio Littorio e dallo stemma di Milano), ma tornerà presto nerazzurra. E anche il nome Inter, nel 1932, sarà abbinato a quello di Ambrosiana, che intanto nella stagione '29-'30, allenata dall'ungherese Arpàd Veisz, vince il primo campionato a girone unico (la formazione: Degani; Gianfardoni, Allemandi; Rivolta, Viani, Castellazzi; Visentin, Serantoni, Meazza, Blasevich, Conti).

L'abbinamento Ambrosiana-Inter dura 13 anni, con quattro presidenti (Turrusio, Simonotti, Pozzani e Masseroni), lo scudetto '37-'38 (la formazione: Peruchetti; Buonocore, Setti; Locatelli, Olmi, Antona; Frossi, Ferrara, Meazza, Ferrari, Ferraris II; allenatore Armando Castellazzi) e quello '39-40 (la formazione: Peruchetti; Poli, Setti; Locatelli, Olmi, Campatelli; Frossi, Demaria, Guarneri, Candiani, Ferraris II; allenatore Tony Cargnelli), la prima Coppa Italia ('38-'39). Sono tutte queste l'Inter di Giuseppe Meazza, detto "Il Balilla", il primo grande personaggio della storia del calcio, l'uomo che fa innamorare i tifosi e le donne, che gira per Milano a bordo delle autovetture da ricchi, che ancora oggi viene considerato il più grande di tutti e di tutti i tempi. L'Inter è bizzarra, a volte fragile, a volte straordinaria, si oppone allo strapotere dei 5 scudetti consecutivi della Juventus, si identifica completamente in Meazza, campione nel senso più moderno del termine, costruttore e finalizzatore del gioco. Primo gol in maglia nerazzurra a 17 anni, un mese e 4 giorni, il 27 settembre 1927 sul campo di via Goldoni contro la Dominante Genova superata per 6-1. Ultimo gol, il numero 247, il 13 aprile 1947 in Inter-Triestina. In mezzo la storia di un ragazzo milanese, nato il 1910 a Porta Vittoria, diventato leggenda: 433 gare in serie A, un totale di 278 reti (inferiore solo al primato da 290 di Silvio Piola), interista sempre pentito di aver indossato, per ragioni economiche, le divise di Milan, Juventus, Verona e Atalanta. Tre volte capocannoniere del campionato, 53 presenze in Nazionale e 33 gol, campione del mondo nel '34 e nel 1938.

Come in tutte le leggende, il finale è particolare. Meazza, nel campionato '39-'40, concluso con la vittoria del titolo in volata sul Bologna, fa parte della rosa dei calciatori a disposizione di Tony Cargnelli, però non gioca neppure una partita, bloccato dal cosiddetto "piede gelato", la vasocostrizione di un'arteria non permette il regolare afflusso del sangue. Uomo di mondo, dopo 13 stagioni consecutive nell'Inter e le parentesi nelle squadre che neppure voleva ricordare (si giustificava: "erano anni difficili, i tempi della guerra... "), Meazza torna all'Inter da giocatore-allenatore a trentasei anni suonati, per poi continuare la carriera solo da tecnico, lavorando anche e ancora per la causa nerazzurra, ma concedendosi esperienze in Turchia (al Besiktas) e in Nazionale. E' morto nel 1979 e ora riposa, insieme con i grandi che hanno scritto la storia di Milano, al Famedio del cimitero Monumentale. Nel marzo 1980 gli è stato intitolato lo stadio di San Siro, costruito tra il 1° agosto 1925 e il 15 settembre 1926, quindi ampliato e rivisto sino ai giorni nostri.

Otto giorni dopo la celebrazione del 5° scudetto interista, il primo senza Meazza, l'Italia entra in guerra. Il calcio, tra dolori e rovine, prova a sopravvivere, ma non riesce comunque a far sognare la gente. Nel 1942, nel pieno del secondo conflitto mondiale, presidente della società nerazzurra viene nominato Carlo Masseroni. Resterà al comando della Società per 13 anni. E' lui ad annunciare, sabato 27 ottobre 1945, che "l'Ambrosiana torna a chiamarsi solo Internazionale". I tifosi festeggiano, la gente rivede la luce dopo il buio del regime e della seconda guerra, nasce il Grande Torino di Valentino Mazzola che diventerà leggenda dopo la tragedia aerea di Superga. L'Inter di Masseroni alterna campioni e "bidoni", comincia però a costruire la squadra che vincerà due scudetti consecutivi.

In questo periodo i personaggi di spicco sono Benito "Veleno" Lorenzi, il grande nemico del Milan, attaccante toscano bravo con i piedi e con le parole, sempre pungente e trainante; e poi l'apolide Stefano Nyers (francese di genitori ungheresi), il biondissimo svedese Lennart Skoglund bruciato da una vita maledetta e dall'alcol, l'olandese volante Faas Servaas Wilkes. Un attacco formidabile, un gruppo che certifica il dna particolare dell'Inter, bella e stranamore, squadra gioie e dolori. In porta un altro personaggio da prima pagina, Giorgio "Kamikaze" Ghezzi. A mettere ordine tattico a un gruppo bello e impossibile ci pensa un tecnico poco amato dalla critica, ma vincente nei fatti: Alfredo Foni. Portano la sua firma due scudetti consecutivi. Il primo (campionato '52-'53) conquistato con questa formazione titolare: Ghezzi; Blason, Giacomazzi; Neri, Giovannini, Nesti; Armano, Mazza, Lorenzi, Skoglund, Nyers. Nasce con quest'Inter il cosiddetto "catenaccio", l'arte di sapersi difendere. Foni, per smentire le critiche, l'anno dopo concede più corda alla squadra, che offre un gioco più spettacolare (memorabile il 6-0 rifilato alla Juventus) ed è ancora scudetto ('53-'54). Questa la formazione titolare: Ghezzi; Vincenzi, Giacomazzi; Neri, Giovannini, Nesti; Armano, Mazza, Lorenzi, Skoglund, Nyers.

La leggenda della Grande Inter


Ci sono solo due squadre, nella storia del calcio italiano, alle quale gli storici hanno abbinato l'aggettivo "grande": il Grande Torino e la Grande Inter. Nessun'altra formazione, pur protagonista di vittorie importanti, ha avuto quest'onore letterario, questa laurea eterna, questa corona al merito per qualcosa di straordinario. La Grande Inter è la madre di tutte le Inter: di quelle prima e di quelle dopo, di quelle che saranno. E' il simbolo, la poesia che tutti i tifosi conoscono a memoria: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Il tecnico non è semplicemente un allenatore, è "Il Mago" Helenio Herrera, colui che rivoluziona tutto nel calcio italiano: dalla preparazione atletica alla tattica, dalla richiesta d'ingaggi all'alimentazione degli atleti, dalla comunicazione al rapporto con il presidente. Dietro le quinte della squadra capace di vincere, in cinque anni, tre scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali troviamo Italo Allodi, il Richelieu della scrivania, il responsabile dell'organizzazione in Società e del calciomercato. Sopra tutto e tutti, nel cuore della leggenda, anima e motore della Grande Inter, padre e solo per amore nerazzurro padrone, Angelo Moratti, il Presidentissimo.

Il petroliere Angelo Moratti, classe 1909, nato a Somma Lombardo, figlio unico di una farmacista, sette zie tutte suore, sposato con Erminia Cremonesi, tifosa nerazzurra anche lei, e padre di sei figli (Adriana, Gianmarco, Maria detta Bedy, Massimo, Gioia e l'adottivo Natalino), acquista l'Inter sabato 28 maggio 1955 e diventa il quindicesimo presidente della storia del club. Sarebbe stata la moglie, presto riconosciuta come Lady Erminia, a trasmettergli la passione del calcio.
Moratti, sigaretta sempre accesa, uomo elegante e dal sorriso forte, è un industriale che, con impegno e umiltà, ha scalato la montagna del successo. L'Inter gli costa 100 milioni, così almeno raccontano i giornali dell'epoca, ma quello che lui regala all'Inter non ha prezzo. E' il valore assoluto della storia, della tradizione, dell'identificazione. Ancora oggi, in giro per il mondo, quando si dice Inter si pensa alla Grande Inter di Angelo Moratti. Eppure, all'inizio, la strada è tutt'altro che in discesa. La squadra, che ha chiuso il ciclo-Foni del doppio scudetto, per 5 anni vaga alla ricerca di un'identità, cambia spesso allenatore, non sale oltre un terzo posto malgrado l'arrivo dall'Argentina di uno dei più grandi talenti di tutti i tempi, Antonio Valentin Angelillo, cresciuto nel Boca Junior, attaccante più stile che fantasia, classe 1937, micidiale cercatore di gol: con 33 centri in 33 gare stabilisce nel '58-'59 il record delle marcature, ancora imbattuto, nei campionati a 18 squadre.

Angelillo, brillantina sui capelli e baffetti neri, è l'idolo dei tifosi di San Siro e della famiglia Moratti che intanto vede approdare in prima squadra il giovin Mario Corso e applaude le reti di Edwing Firmani. Ma è lui, Antonio Valentin, l'ago della bilancia e il pomo della discordia. Infatti, quando Angelo Moratti decide di ingaggiare come allenatore Herrera, allora tecnico in contemporanea di Barcellona e nazionale spagnola, la frattura si allarga sino al divorzio dal campione. Angelillo s'innamora di Attilia Tironi, in arte Ilya Lopez, ballerina in un locale notturno di piazza Diaz. Herrera, che aveva trovato un'Inter "lenta e senza ritmo" e che era un sergente di ferro ("il ritiro - confidava - l'ho inventato io"), non gradisce e dal campione un po' maledetto di Buenos Aires riesce a separarsi nella primavera del 1961. Una separazione (Angelillo va alla Roma, poi passerà anche al Milan, ma non sarà più il grande dei tempi nerazzurri) che traccia il confine.

Al posto di Angelillo arriva dalla Spagna il regista Luis Suarez, già Pallone d'Oro, campione europeo con la nazionale e protagonista nelle coppe internazionali con il Barcellona. Angelo Moratti, per accontentare Herrera che lo vuole a tutti i costi, deve pagare una cifra record per il calciomercato di allora: 250 milioni. Tanto per capirci, con questa cifra versata dall'Inter la società catalana costruisce la nuova tribuna del suo stadio. Ma Herrera ha visto giusto. "Luisito" (così lo chiamano i tifosi e gli amici ancora oggi) è l'uomo che mancava in una squadra che stava già cambiando mentalità, modulo, uomini. Suarez, galiziano di La Coruna, classe 1935, è l'epicentro del progetto. Intanto si fanno largo i giovani usciti dal vivaio, come Giacinto Facchetti, Sandro Mazzola, Gianfranco Bedin.

Il poeta mancino Mario Corso è il "Sinistro di Dio" per le sue punizioni "a foglia morta", il livornese Armando Picchi comanda da leader la rocciosa difesa e lo spogliatoio. Che Inter quell'Inter che stava diventando grande e che aveva superato anche lo scandalo beffa (a suo danno, ovvio) della Federcalcio sul rifacimento di una partita esterna con la Juventus (come atto di rivolta alla Figc, Moratti manda in campo a Torino la squadra dei giovani che perde 9-1; la rete nerazzurra è firmata Sandro Mazzola, il primo gol di una lunga cavalcata).

"Presidente, vinceremos todos y contra todos". Herrera deve stregare Moratti, in qualche modo. Il tecnico ha già rischiato in più occasioni l'esonero, il suo rapporto con il manager Italo Allodi è tormentato. La prima penna del giornalismo sportivo italiano, Giovanni Brera, critica spesso e volentieri l'allenatore nato a Buenos Aires, cresciuto a Casablanca, affermatosi in Spagna. Insomma, le difficoltà non mancano. Però è proprio in questa terra di nessuno, in questa palestra di sudore e addestramenti (sta per essere costruito anche il centro sportivo dell'Inter ad Appiano Gentile, in provincia di Como), che nasce la leggenda, attraverso una fusione passionale e molecolare tra Moratti, la squadra, Herrera, i tifosi, la città di Milano. Raccontano i testimoni: "Non è possibile descrivere quanto era bella la città grazie alla forza, alle idee e al calcio della società nerazzurra". C'è da crederci, senza dubbi. Nascono in questo periodo gli Inter Club, l'istituzione del tifoso organizzato. Nasce, appunto, la leggenda. L'Inter di Herrera vince il suo primo scudetto, stagione '62-'63, decisivo il successo a Torino sulla Juventus nel cosiddetto Derby d'Italia: 1-0 per i nerazzurri, rete-partita di Sandro Mazzola, classe 1942, figlio d'arte, attaccante con un repertorio di colpi e un'intelligenza ben oltre la media naturale, potente e veloce al tempo stesso, un'altra pagina eterna della lunga e inconfondibile storia nerazzurra (in tutto, in 418 partite con una fedeltà senza macchia, Mazzola realizzerà 117 gol in campionato, 20 nelle coppe europee, 24 in Coppa Italia). "Il Mago", per regalare a Moratti il primo titolo tricolore, schiera la seguente formazione: Buffon; Burgnich, Facchetti; Zaglio, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Di Giacomo, Suarez, Corso.

Giacinto Facchetti, nato a Treviglio nel luglio del 1942, diventa l'allievo prediletto del "Mago". Con un fisico da granatiere e una volontà di ferro, "rubato" all'atletica leggera, è l'Inter che si fa morale, rigorosa e puntuale nell'insegguimento dell'obiettivo. Facchetti è il primo terzino d'attacco della storia del calcio italiano, domina la fascia sinistra, marca e attacca contemporaneamente. Herrera lo proverà anche come attaccante per la facilità realizzativa e nel 1978, quando dirà stop al calcio giocato, Giacinto il "Gigante Buono" avrà realizzato, solo in campionato, un totale di 59 reti. Un atleta perfetto, un interista controtendenza rispetto al dna "pazzo": Facchetti, grazie al "Mago", è arrivato nell'Olimpo del calcio e vi è rimasto, figura di riferimento all'interno della Società (nel gennaio 2004 è stato nominato Presidente) e delle istituzioni calcistiche, nazionali e internazionali.

Anche dopo la conquista del primo scudetto, la prima richiesta che Herrera fa ad Angelo Moratti è quella di una cessione. Il ritornello si ripeterà ogni dodici mesi. Nel mirino del tecnico, Corso, veneto classe 1941, il campione con un piede solo (il sinistro), un artista del pallone. Troppo bravo tecnicamente, troppo geniale nelle giocate, per andare anche e sempre di corsa. Ma il Presidentissimo non cederà mai al ricatto del "Mago", e così vissero insieme felici e contenti. Unione favorita, senza dubbio, anche dai successi che la squadra comincia a raccogliere. Dopo lo scudetto parte una straordinaria e fortunata avventura in Europa che, mercoledì 27 maggio 1964, si conclude al "Prater" di Vienna, avversario il Real Madrid dei campionissimi, di Puskas e Di Stefano che affrontano la loro settima finale di coppa. L'Inter, al cospetto, sembra giovane, inesperta, ambiziosa e, al tempo stesso, indifesa. Invece, sotto l'apparenza, arde il grande fuoco nerazzurro; I tifosi partono da Milano con ogni mezzo possibile per raggiungere la capitale austriaca. Herrera, che da buon ex del Barcellona vive la finale quasi come un derby, prepara la gara in ogni particolare. Ed è trionfo. Il gregario Carlo Tagnin annulla Di Stefano, lo stopper Aristide Guarneri non lascia palla a Puskas, il grande capitano Picchi domina la scena difensiva, sul finale del primo tempo Facchetti lancia Mazzola che porta in vantaggio i nerazzurri. Nella ripresa 2-0 del centravanti Aurelio Milani, poi accorcia il Real con Felo, chiude Mazzola con una rete capolavoro. L'Inter è campione d'Europa. Milano e l'Italia intera scendono in piazza per celebrarla. Ed è solo l'inizio...

E' il 9 settembre 1964, l'Inter va alla conquista del mondo. L'avversario, per la finale della Coppa Intercontinentale, è l'Independiente di Avallaneda, il club campione del sudamerica. Si gioca in uno stadio "bolgia", Herrera ha riscaldato gli animi ("non me ne frega nulla dei tifosi avversari"), i nerazzurri marcano "hombre a hombre", non concedono metri agli argentini allenati da Manuel Giudice, scagliano la palla in tribuna davanti a ogni possibile pericolo. La resistenza umana e atletica dell'Inter campione d'Europa viene annullata dall'errore del portiere Sarti, una papera clamorosa: Independiente 1-Inter 0. Si riparte a San Siro, due settimane dopo, il 23 settembre. Non c'è partita. I nerazzurri dominano, trainati dal pubblico: 2-0, reti di Mazzola e Corso. Per assegnare la Coppa Intercontinentale serve una terza gara, la "bella". Si gioca a Madrid, il 26 settembre, stadio "Santiago Bernabeu", il tempio del Real. Herrera sostituisce Mazzola con Peirò, Burgnich con Malatrasi, Jair con Domenghini. Scelte discutibili. Infatti i nerazzurri soffrono e rischiano, alla fine dei tempi regolamentari il migliore in campo risulta Sarti, che para tutto e di più. Notte drammatica, senza fine. Si racconta di una Milano in religioso silenzio, in attesa di notizie da Madrid. Tempi supplementari, fatica immane per gli atleti, campo pesante, gara spezzettata. Serve un colpo di genio per rompere l'equilibrio. E chi, se non Corso, può inventare? Infatti, come volevasi dimostrare, l'Inter passa in vantaggio con il suo "Mandrake" al minuto numero 6 del secondo tempo supplementare: lancio di Milani, cross di Peirò, controllo di petto e sinistro vincente di Corso. E' il trionfo, l'Independiente s'inchina, il popolo nerazzurro scende in piazza: Inter sul tetto del mondo.

Il 1965 è l'anno più glorioso della storia dell'Inter. Dopo aver vinto la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, i nerazzurri hanno lasciato il titolo al Bologna in un avvelenato finale di campionato. Per la prima volta nel calcio compare il termine doping e, per la prima volta, il titolo viene assegnato attraverso una gara di spareggio, che i nerazzurri perdono a Roma il 7 giugno 1964. Angelo Moratti è furibondo, la Figc ancora una volta ha remato contro l'Inter. Bisogna essere veramente più forti di tutti e di tutto, come sostiene Herrera, per far trionfare la giustizia sportiva. E così, nel 1965, l'Inter s'inventa un triplice capolavoro. Primo: vince lo scudetto, in rimonta sul Milan di Gino Viani. Il 31 gennaio 1965 i rossoneri battono il Mantova e in classifica hanno 7 punti di vantaggio sui nerazzurri, sconfitti a Foggia. Il 28 marzo 1965, al termine di uno dei derby più fantastici mai visti a San Siro, il Milan è battuto (5-2) e conserva un solo punto di vantaggio. Herrera, che ha lanciato in squadra il mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci riprova con un altro giovane, il centravanti Sergio Gori detto "Bobo", classe 1946, figlio di uno dei più importanti ristoratori toscani di Milano. E proprio Gori, dopo il vantaggio firmato Suarez, stende la Juventus a Torino, mentre il Milan perde in casa con la Roma. Si va avanti così, lotta gomito a gomito, sino al 6 giugno, quando i rossoneri perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano in rimonta 2-2 con il Torino a San Siro. Il gol tricolore, su rigore, è di Mazzola, capocannoniere del torneo con 17 reti. La formazione: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Domina la condizione atletica dell'Inter che, mentre prepara la vittoria del nono scudetto, rivince la Coppa Campioni.
E' questa la seconda impresa del 1965. In Europa la squadra di Herrera vola senza problemi sino alla semifinale con il Liverpool. Cade nella gara d'andata in Inghilterra (3-1) e non sembra in grado di recuperare la qualificazione. Invece, ancora una volta, la leggenda si materializza sul campo bagnato di San Siro, il 12 maggio, davanti a 80mila spettatori per un incasso di 161 milioni di lire. Punizione vincente di Corso, rete fotografia di Joaquim Peirò che ruba la palla al portiere inglese Lawrence (stava palleggiando con le mani), 3-0 di Facchetti. La finale della Coppa dei Campioni si disputa a Milano, il 27 maggio. Tempesta di pioggia sulla città nel pomeriggio, temperatura autunnale, stadio esaurito, gara equilibrata contro i portoghesi del Benfica guidati dal grande Eusebio, Inter in maglia bianca con striscia nerazzurra sul petto. Decide, al minuto numero 42 del primo tempo, una rete di Jair: la palla passa tra le gambe del portiere Costa Pereira. Il settimanale "Milaninter" titola: "Inter figlia di Dio". Diventerà uno slogan.

Terzo capolavoro targato 1965. La conquista della seconda Coppa Intercontinentale. L'avversario è ancora l'Independiente. A differenza del precedente confronto, stavolta la gara d'andata si disputa a San Siro. E' mercoledì 8 settembre. Gli argentini non hanno neppure il tempo di respirare. Herrera ha chiesto ai nerazzurri di prendere l'avversario per il collo. Peirò, dopo 8 minuti, è già in gol; Mazzola, con una doppietta, mette il timbro al limpido 3-0. Una settimana dopo si gioca in casa dell'Independiente, che prova a buttarla in rissa: Suarez e Sarti vengono colpiti da alcuni oggetti lanciati dalle tribune, Jair è martoriato di falli. Una traversa e delle buone parate di Sarti certificano il pareggio e dunque la vittoria della seconda Coppa Intercontinentale. Titolo della "Gazzetta dello Sport": "Pari coraggioso dell'Inter: è campione". Ricorderà l'avvocato Prisco di aver seguito la gara in tribuna d'onore, protetto dagli alpini della sessione di Buenos Aires.

La Grande Inter vince il terzo scudetto, il secondo consecutivo, al termine del campionato '65-'66. Forse il successo meno complicato per la squadra di Angelo Moratti e il "Mago" Herrera. Qualche timida opposizione da parte di Milan e Bologna, ma nulla più. I rossoneri si arrendono nel derby, che i nerazzurri vincono 2-1, con una grande rete di Bedin (che annulla Rivera) e un gol di Domenghini. L'Inter è campione con 50 punti, 4 di vantaggio sul Bologna. La formazione tipo: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso.

Non c'è notte senza alba, non c'è sogno senza risveglio. Il ciclo della Grande Inter si conclude un anno dopo, il 1° giugno 1967 nella fatal Mantova. I nerazzurri, che hanno già perso sfortunatamente la Coppa dei Campioni a Lisbona contro il Celtic, recuperano Suarez dall'infortunio e si presentano con Cappellini centravanti. Traversa di Mazzola, l'Inter è stanca, ma vuole mantenere il punto di distacco sulla Juventus (48 a 47) e comanda la partita. Un giovane Dino Zoff, portiere rivelazione del campionato, salva in più occasioni il Mantova. Al minuto numero 4 della ripresa il pasticcio: un tiro di Di Giacomo, l'ex di turno, inganna Sarti. La palla scivola tra le mani del portiere nerazzurro e va in rete. Una beffa: Sarti, due anni dopo, firmerà per la Juventus alla quale, in pratica, regala lo scudetto. E' infatti inutile l'assalto finale dell'Inter, l'arbitro padovano Francescon nega un rigore a Mazzola e caccia dal campo un furente Corso. Negli spogliatoi volano cazzotti e parole grosse, ma il titolo è della Juventus. Angelo Moratti, seppur deluso, trova la classe delle parole per scrivere la parola fine a una grande storia di calcio e passione: "Siamo stati grandi quando si vinceva, cerchiamo di essere grandi anche ora che abbiamo perduto. Forse siamo rimasti troppo tempo sulla cresta dell'onda. E tutti a spingere per buttarci giù. Ora saranno tutti soddisfatti". E' solo la verità.

Tre scudetti, uno da record


Il 18 maggio 1968 Angelo Moratti lascia l'Inter. E' finita un'epoca, raduna la famiglia e annuncia che è arrivato il momento di farsi da parte. Dirà: "Tifo lo stesso, soffrendo molto meno. Non sento più la responsabilità imposta dalla folla. Sono un tifoso in mezzo ai tifosi". Angelo Moratti morirà a Viareggio il 12 agosto 1981, tra le lacrime del popolo nerazzurro che non ha dimenticato e mai potrà dimenticare. "La gente - scriverà Giorgio Bocca - si fidava di lui". Ivanoe Fraizzoli, classe 1916, è il nuovo proprietario-presidente, ex pugile, una passione per la bicicletta. Il suo primo colpo di calciomercato si chiama Roberto Boninsegna, il bomber da battaglia detto "Bonimba", classe 1943, fulmini e tuoni, cresciuto nelle giovanili dell'Inter prima di vincere uno scudetto a Cagliari e di arrivare, con l'Italia, alla finale del Mondiale in Messico nel 1970. All'Inter darà moltissimo: 113 gol in 197 partite.

Con "Bonimba" scatenato in attacco, con Facchetti, Bedin, Jair, Mazzola e Corso reduci dai fasti della Grande Inter, la squadra allenata da Gianni Invernizzi (preso dal Settore Giovanile per sostituire Heriberto Herrera) infila 23 risultati utili consecutivi, recupera punti in continuazione sul Milan di Nereo Rocco e il Napoli di Chiappella, vince lo scudetto con 49 punti. Per la storia, è il campionato del secondo sorpasso. Decisivo il derby di ritorno, 7 marzo 1971: 2-0 per i nerazzurri già dopo 30 minuti di partita, strepitosa punizione di Corso e colpo di testa firmato Mazzola. Il giorno del trionfo porta la data del 2 maggio: 5-0 al Foggia, festa allo stadio di San Siro. La formazione-base dello scudetto: Vieri; Bellugi, Facchetti; Bedin, Giubertoni, Burgnich; Jair, Bertini, Boninsegna, Mazzola, Corso.



L'Inter torna dunque in Coppa Campioni. Il viaggio in Europa la porterà sino alla finale, persa il 31 maggio 1972 a Rotterdam contro l'Ajax, l'espressione del nuovo calcio (detto "totale") europeo. Ai nerazzurri non basta la buona volontà, Johan Cruyff realizza una doppietta. Ma il viaggio in Europa dell'Inter di Invernizzi è segnato da un'episodio particolare, passato alla storia come il giallo della lattina. Succede tutto la notte di mercoledì 20 ottobre '71, in occasione della gara in trasferta contro il Borussia Moenchengladbach. La gara termina con la vittoria dei tedeschi per 7-1, ma è falsata da un episodio per il quale l'Inter presenta ricorso all'Uefa: una lattina di Coca Cola, lanciata da uno spettatore (poi indentificato in tale Alfred Gerhardts), colpisce alla testa Boninsegna. Il confronto legale è dominata dall'avvocato Prisco, che riesce abilmente a far ripetere la partita in campo neutro. Così l'Inter, dopo la vittoria a San Siro per 4-2, pareggia 0-0 a Berlino, superando il turno grazie a un prodezza di Ivano Bordon, portiere classe 1951, cresciuto nel vivaio, che respinge il rigore di Sieloff. Bordon è uno dei ragazzi emergenti, al pari di Gabriele Oriali, classe 1952, teoria e pratica del mediano perfetto, duro e leale, tecnico e di qualità, esempio classico di uomo derby. Sarà, Oriali, uno dei protagonisti assoluti del Mondiale 1982 vinto in Spagna dagli azzurri di Enzo Bearzot, che da calciatore (mediano) ha vestito anche la maglia nerazzurra (negli anni '50).



Dallo scudetto del 1971 alla Coppa Italia vinta nel 1978 a Roma contro il Napoli. Nel frattempo Sandro Mazzola ha lasciato il campo nel 1977 per passare dietro la scrivania come consigliere di mercato del presidente Fraizzoli. Facchetti, invece, appenderà le scarpe al chiodo nel '78, a 36 anni suonati. Per l'Inter è una fase di transizione, nella quale però si affacciano alla ribalta giovani che andranno a costruire l'ossatura della squadra del futuro. Tra questi Alessandro Altobelli, detto "Spillo", acquistato dal Brescia dal direttore sportivo Giancarlo Beltrami. Forte fisicamente malgrado l'apparenza gracile, furbo negli ultimi 16 metri, nato con il fiuto del gol: con la maglia nerazzurra Altobelli di reti ne segnerà 128 in campionato, 46 in Coppa Italia, 35 nelle coppe europee (cifra record). Anche lui campione del Mondo in Spagna nel 1982. L'azzurro è invece il colore dell'amarezza per Evaristo Beccalossi, uno degli ultimi fantasisti del calcio italiano, bresciano, classe 1956. Arriva all'Inter nel 1978 ed è subito amore con il pubblico. Beccalossi è la genialità del calcio contro le leggi di un fisico non proprio atletico e contro una pigrizia di fondo che, in giornate di luna storta, te lo fanno odiare. Partita della vita il 28 ottobre '79, domenica di derby, campo pesante per l'abbondante pioggia, San Siro esaurito: il "Becca" segna una straordinaria doppietta. Per la leggenda avrebbe detto "sono Evaristo, scusa se insisto" al portiere rossonero Ricky Albertosi dopo il secondo gol. Diventerà testo di uno spettacolo teatrale del comico Paolo Rossi il doppio errore dal dischetto di Evaristo contro lo Slovan Bratislava il 15 settembre '82. La rivalità cittadina supera la media quando il Milan, per ben due volte, retrocede in serie B. L'avvocato Prisco non perdona con le battute: "Una volta sono andati in serie B pagando (ndr.: riferimento al calcioscommesse) e una volta gratis". Intanto l'Inter, allenata da Eugenio Bersellini e definita "operaia" per il suo gioco concreto, vince lo scudetto al termine della stagione 1979-'80. E' il dodicesimo titolo della storia, il settimo del dopoguerra, il secondo del presidente Fraizzoli. La festa scudetto si tiene il 27 aprile '80, dopo il pareggio (2-2) con la Roma a San Siro. L'Inter ha mantenuto la vetta della classifica dalla prima giornata e conclude con tre punti di vantaggio sulla Juventus. Ecco la formazione-base: Bordon; Beppe Baresi, Oriali; Pasinato, Canuti, Bini; Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro.



Si chiama Herbert Prohaska, è nato a Vienna nel 1955, gioca in cabina di regia: è il primo straniero dell'Inter dopo la riapertura delle frontiere nel 1980 (la Federcalcio aveva impedito l'arrivo di calciatori dall'estero dopo il fallimento azzurro nel Mondiale inglese del 1966). Friazzoli lascia la proprietà e la presidenza mercoledì 18 gennaio 1984. L'Inter passa a Ernesto Pellegrini per sette milardi e il suo primo acquisto è un "colpo" di calciomercato: Karl Heinz Rummenigge, uno degli attaccanti più forti del momento, tedesco, classe 1955, in Germania ha vinto tutto. L'acquisto porta la firma di Mazzola, abile nell'anticipare la Juventus e la Fiorentina (dove lavora l'ex dirigente nerazzurro Allodi), ma Pellegrini ha le sue idee, vuole cambiare tutto in Società e, infatti, Mazzola si dimetterà dopo poco tempo. Cambia anche l'allenatore (da Gigi Radice a Ilario Castagner strappato al Milan), ma l'avvio della nuova proprietà è faticosa. Rummenigge, che diventa subito l'idolo dei tifosi, è frenato dagli infortuni: entrerà nella memoria per una doppietta alla Juventus (battuta per 4-0 a Milano) e per una fantastico gol in Coppa Campioni (acrobazia contro i Rangers Glasgow) annullato ingiustamente dall'arbitro e connazionale Roth. Sono gli anni di un'incredibile rivalità europea con il Real Madrid, i primi di Pellegrini che cerca, freneticamente, di regalare all'Inter campioni (per esempio il belga Vincenzo Scifo) e vittorie. L'andamento discontinuo cambia con l'arrivo sulla panchina nerazzurra di Giovanni Trapattoni, classe 1939, milanese di Cusano Milanino, ex campionissimo con il Milan di Nereo Rocco, allenatore che ha vinto tutto con la Juventus.
Il Trap, come lo chiamano gli amici, arriva a Milano il 22 maggio 1986. Sfiora lo scudetto alla prima stagione, prepara l'impresa l'anno dopo, dà forma e sostanza a una squadra nella quale prende sempre più spazio un trio leggendario composto dal portiere Walter Zenga e dai difensori Beppe Bergomi (già campione nel mondo giovanissimo nel 1982 in Spagna) e Riccardo Ferri. Tutti e tre sono usciti dal vivaio giovanile. Zenga, che sarà poi nominato il più grande portiere della storia nerazzurra, è stato anche un ultras e ha coronato il sogno di scendere dalla curva per andare in campo a difendere la porta della sua squadra del cuore. Diversi fra loro, ma ancora oggi molto uniti, Zenga (classe 1960, titolare dell'Inter già a 23 anni, 473 presenze complessive), Bergomi (classe 1963, esordio nell'Inter a 17 anni, record assoluto di 758 presenze) e Ferri (classe 1963, esordio in prima squadra nel 1982, 418 presenze complessive) sono la filastrocca italiana dell'Inter che, nella stagione '88-'89, vince lo scudetto. Una squadra nuova, ma che sembra vivere insieme da una vita. Dalla Germania arriva Lothar Matthaeus, uno dei centrocampisti più completi mai visti sui campi di calcio, classe 1961, miccia e furore, grande casinista, Pallone d'Oro e campione del Mondo nel 1990, protagonista assoluto in campo e negli spogliatoi. Con il "grande Lothar" arriva il terzino sinistro Andy Brehme, straordinario interprete tattico sulla fascia sinistra di un gioco di squadra che è il marchio di fabbrica del Trap. Accusano il tecnico nerazzurro di essere la vecchia espressione del calcio italiano, segnato dalle rivoluzioni di Arrigo Sacchi, allenatore del Milan.
Ma la sua Inter è lo spettacolo della concretezza, con un centravanti classico (Aldo Serena) che vince la classifica dei marcatori (22 gol) e che si abbina perfettamente con una seconda punta veloce e pungente, l'argentino Ramon Diaz, arrivato a Milano per caso e in prestito dopo la bocciatura, per problemi fisici, dell'algerino Rabah Madjer. A centrocampo, davanti alla geometrica regia di Gianfranco Matteoli, tuona Nicola Berti, un ragazzo di Salsomaggiore che diventa subito idolo dei tifosi per la sua naturale antipatia nei confronti del Milan. Insomma, un'Inter perfetta, che raccoglie ben 58 punti (record per i campionati a 18 squadre) e, oltre al Milan di Sacchi, batte di slancio anche il Napoli di Diego Armando Maradona nel faccia a faccia allo stadio "Meazza" il 28 maggio '89 (leggendario il destro su punizione di Matthaeus che regala la vittoria). E' il primo e anche unico scudetto vinto da Ernesto Pellegrini che, in seguito, inserendo in squadra un altro tedesco (Jurgen Klinsmann), vincerà la Supercoppa Italia e la prima Coppa Uefa della storia, riportando il nerazzurro sul tetto d'Europa 26 anni dopo la conquista dell'ultimo trofeo nel 1965. L'Inter di Trapattoni si chiude proprio qui, a Roma, il 22 maggio 1991, con la conquista della Coppa Uefa. Il tecnico torna alla Juventus, Pellegrini sbaglia il sostituto preferendo lo sconosciuto Corrado Orrico a Sven Goran Eriksson e comincia la fase calante della sua gestione. Nel 1994, con Giampiero Marini in panchina al posto di Osvaldo Bagnoli (che nell'annata precedente aveva conteso lo scudetto al Milan di Fabio Capello), arriva la seconda Coppa Uefa, conquistata in finale contro gli austriaci del Casino Salisburgo. Ma l'era-Pellegrini è davvero agli sgoccioli e sarà ricordata soprattutto con la formazione tipo dello scudetto dei record, il 13° della storia nerazzurra: Zenga; Bergomi, Brehme; Matteoli, Ferri, Mandorlini; A.Bianchi, Berti, Serena, Matthaeus, Diaz.

Dal ritorno dei Moratti a Mancini


Il successo europeo, la conquista della seconda Coppa Uefa, chiude un ciclo nerazzurro (Zenga e Ferri vengono trasferiti alla Sampdoria), ma non argina i problemi contro i quali il club impatta ogni giorno. Da tempo il popolo interista chiede, a più voci, non ultima quella dell'opinione pubblica, dei giornali e delle televisioni, il ritorno del club alla famiglia Moratti. C'è già stato qualche contatto tra Ernesto Pellegrini e Massimo Moratti, figlio di Angelo, che spesso si maschera tra i comuni tifosi per seguire la squadra in casa e in trasferta, senza fare ombra alla proprietà al centro di molte critiche. E' davanti allo spettro di una crisi probabilmente definitiva che i tempi della svolta vengono accelerati. Decisivo il ruolo che l'avvocato Peppino Prisco ricopre in questi mesi lunghi e tempestosi.
Cuce e ricuce, lavora dietro le quinte, scrive e risponde lettere, insomma ancora una volta si batte per la causa con l'intelligenza e l'autorevolezza che hanno segnato la sua vita prima ancora che la sua carriera dirigenziale. Prisco, classe 1921, figlio di genitori napoletani, milanese e interista, avvocato e alpino, non è stato solo il più grande, conosciuto e riconosciuto tifoso nerazzurro. E' stato, ed ancora è nella memoria di tutti, la voce, l'anima, la bandiera dell'Inter. Così, un sabato mattina, si concretizza il tanto atteso passaggio di proprietà. L'Inter torna in Famiglia, ai Moratti. Il giorno dopo, allo stadio "Giuseppe Meazza" di Milano, è in programma la partita di campionato con il Brescia. E' una festa, un giorno indimenticabile, con gli interisti che si sentono nuovamente e completamente interisti. Sicuri non solo di poter tornare ad avere una squadra competitiva, ma di essere garantiti da una società lontana dal tunnel che nel calcio fa più paura: quello dal quale è difficile uscire, quello del fallimento. L'Inter batte il Brescia con un gol di Nicola Berti, Massimo Moratti si mette subito al lavoro, in prima persona, tra onori e oneri, tra sacrifici e felicità, tra gioia e dolori. "Il mio - spiega - è stato un atto d'amore nei confronti della gente dell'Inter".

La stagione '94-'95, sotto la guida tecnica di Ottavio Bianchi, si conclude con la faticosa conquista di un posto in zona-Uefa ottenuta nell'ultima giornata, con una vittoria casalinga in rimonta sul Padova. C'è molto da cambiare, nella squadra e in società, Massimo Moratti procede per tappe, ma non è un lavoro semplice. L'allenatore Bianchi, in tal senso, non lo aiuta, infatti l'Inter viene clamorosamente sconfitta a Lugano, nella gara d'andata di Coppa Uefa. La successiva caduta in campionato a Napoli porta al cambio del tecnico. Prima Luis Suarez, poi Roy Hodgson. E' una fase di transizione per i nerazzurri che alternano colpi di mercato (Javier Zanetti, Roberto Carlos, Maurizio Ganz, Marco Branca, Youri Djorkaeff) a errori. Manca soprattutto la continuità, anche se la sfortuna comincia ad apparire come l'avversario più difficile da battere, basti pensare alla finale di Coppa Uefa persa, al "Meazza" e ai calci di rigore, contro i tedeschi dello Schalke 04.

Nella primavera del 1997 la storia moderna dell'Inter cambia profondamente. La Società ha gettato le basi, economiche e organizzative, ed è pronta a fare il salto di qualità. Massimo Moratti, con la collaborazione della Pirelli (socio del club dal 14 giugno '95), acquista Ronaldo dal Barcellona. L'arrivo a Milano dell'attaccante brasiliano, che già tutti riconoscono come il Fenomeno, è l'avvenimento dell'estate. E' il 25 luglio '97. Il ragazzo di Bento Riberio, sobborgo di Rio de Janeiro, classe 1976, cresciuto dal Sao Cristovao, lanciato dal Cruzeiro, consacrato in Europa dal PSV Eindhoven, sveste la maglia del Barcellona (54 reti in 61 gare) e indossa per la prima volta quella nerazzurra (numero 10, per il primo anno) nell'amichevole al "Meazza" contro il Manchester United davanti a 49.718 paganti già innamorati. Altre date da ricordare: il 19 agosto '97, nell'amichevole di Pisa, Ronaldo firma il suo primo gol nerazzurro non ufficiale; il 31 agosto, a Milano contro il Brescia, esordisce nell'Inter e in serie A; il 14 settembre, a Bologna superando il portiere Brunner, firma il suo primo gol ufficiale; il 22 novembre entra per la prima volta nel tabellino dei marcatori di un derby a Milano trasformando un calcio di rigore. Il brasiliano con i denti da coniglio chiude il 1997 vincendo il "Pallone d'Oro", facendo volare l'Inter in Coppa Uefa, trainando in campionato la squadra di Gigi Simoni, che non riesce a esprimere un buon calcio, ma è sempre in lotta per il titolo. La Juventus, già aiutata dagli arbitri in almeno due occasioni, arriva allo scontro diretto di Torino con il fiato corto. Ronaldo è lanciato, Simoni ha trovato la quadratura difensiva dell'insieme con un manipolo di operai a sostegno delle prime firme (Colonnese, West, Cauet, Zè Elias, Moriero, Winter). Gianluca Pagliuca para stupendamente, Beppe Bergomi ha un rendimento talmente alto da rientrare in Nazionale quando già gli era stata pronosticata la pensione.
Javier Zanetti futuro capitano, Diego Pablo Simeone e Ivan Zamorano sono i simboli della militanza e della generosità. Alvaro "Chino" Recoba è un ragazzotto uruguaiano che fa innamorare Massimo Moratti con gol di straordinaria bellezza (a Empoli segna da centrocampo). Insomma, tutto il mondo del pallone dice Inter. Invece, nello scontro diretto di Torino del 26 aprile '98, l'arbitro Ceccarini di Livorno dice che non è da rigore un fallo netto di Iuliano su Ronaldo di Iuliano su Ronaldo lanciato in gol. E' la fine dei sogni nerazzurri e l'inizio di una partita di polemiche che passerà alla storia. La Juventus vince lo scudetto più discusso della sua storia, l'Inter il titolo della pulizia, della morale, dell'etica sportiva. Non solo: a chi dice che l'Inter non avrebbe comunque meritato lo scudetto, la squadra di Simoni risponde aggiudicandosi la Coppa Uefa, annientando la Lazio al "Parco dei Principi" di Parigi con tre gol, uno più bello dell'altro: Zamorano, Javier Zanetti, Ronaldo. E' il 6 maggio 1998.

Dalla felicità ai dolori. Dal Mondiale di Francia rientra all'Inter un Ronaldo affaticato e infortunato al ginocchio. Un problema che, anche a livello psicologico, condizionerà l'intera stagione nerazzurra, malgrado l'ingresso nella squadra di un altro campionissimo, Roberto Baggio da Caldogno. Simoni fatica a gestire la situazione, porta l'Inter al secondo turno della Champions League con una miracolosa qualificazione ai danni del Real Madrid (Baggio è il protagonista della bellissima rimonta sugli spagnoli al "Meazza"), ma pochi giorni dopo viene esonerato e sostituito da Mircea Lucescu. Annata particolare, difficile, trafficata. Il dubbio sulle condizioni fisiche di Ronaldo pesa e condiziona. Dopo Lucescu si alternano sulla panchina Castellini e Hodgson, aspettando il nuovo tecnico già scelto: Marcello Lippi. Nell'estate del 1999 Ronaldo non si sente più solo. A Milano, infatti, arriva Christian Vieri, il centravanti europeo più forte del momento. Una nuova operazione di calciomercato che certifica la forza economica e progettuale del club. Vieri-Ronaldo, la coppia più bella del mondo: non c'è critico che non azzardi questo pronostico. La casualità, però, ci mette ancora una volta lo zampino. Infatti i due centravanti insieme giocano pochissimo. Il brasiliano s'infortuna due volte al ginocchio con altrettanti interventi chirurgici a Parigi. L'italiano convive con ripetuti guai muscolari. Lippi non s'incastra bene con l'ambiente nerazzurro. Baggio, che rinasce in una notte malgrado l'ostracismo del tecnico di Viareggio, regala all'Inter la qualificazione alla Champions League: Roberto, amato da Moratti e dai tifosi, combattuto da Lippi, vince praticamente da solo lo spareggio di Verona contro il Parma. Una stagione si conclude male e quella dopo inizia anche peggio. Eliminata dalla massima competizione europea addirittura nel turno preliminare, l'Inter cambia allenatore (arriva Tardelli) e bisogna preparare un nuovo progetto. Con rinnovata forza. Sotto il segno di Hector Cuper.

Cuper, argentino silenzioso e meticoloso, sergente di poche parole e dal gioco concreto, è l'allenatore che ha portato il Valencia per ben due volte alla finale di Champions League. Ad alcuni, per le origini, ricorda Helenio Herrera, ma il suo calcio è assai meno magico. I campioni (per diversi motivi) faticano a convivere. Christian Vieri, prim'ancora che un Ronaldo a corrente alternata, è il trascinatore della squadra. Da un'amichevole estiva a Madrid sbuca il sorriso e la potenza di Adriano, una stella di passaggio che tornerà a brillare, completamente vestito di nerazzurro, tre anni dopo. Francesco Toldo, veneto, portiere cresciuto alla Fiorentina, protagonista con la Nazionale agli Europei di Belgio e Olanda nel 2000, è una delle novità della squadra che si arrampica in classifica, fino a raggiungere la vetta della partita che vale uno scudetto. Il 12 dicembre 2001, ottantenne da pochi giorni, scompare a Milano l'avvocato Peppino Prisco: lascia sola l'Inter in una notte dopo l'ultima battuta: "Prima di morire diventerò milanista, così dopo avranno un tifoso in meno... ".

E' il 5 maggio 2002. L'Inter gioca allo stadio Olimpico di Roma contro la Lazio, quasi disinteressata persino alla volata-Uefa. La Juventus (nella quale è tornato Lippi) affronta in trasferta l'Udinese. I bianconeri vincono con facilità. I nerazzurri, invece, perdono una gara incredibile, dopo essere stati due volte in vantaggio. E' la domenica del grande pianto nerazzurro. Una situazione surreale, tremenda da vivere e da raccontare. Un lutto collettivo.



Dal 5 maggio a oggi. Ronaldo, il figlio prediletto, lascia, tentato e accontentato dalle comodità del Real Madrid. Cuper arriva, nella seconda stagione, alla semifinale di Champions League con il Milan, perdendo il diritto di giocarsi la finale senza perdere nessuno dei due incontri al "Meazza". Nella squadra si affaccia un giovane dalla faccia simpatica, pescato dagli osservatori del Settore Giovanile a Reggio Emilia: si chiama Obafemi Martins, è nigeriano, non ha ancora vent'anni, con la Primavera ha vinto nella stessa stagione lo scudetto di categoria e il torneo di Viareggio. Corre più veloce della luce e segna con estrema facilità. Festeggia con le capriole. No Martins, no party. Cuper parte e non arriva al termine della sua terza stagione nerazzurra. Strada facendo lo sostituisce Alberto Zaccheroni.

Grazie all'acquisto invernale di Dejan Stankovic e al rientro da Parma di Adriano la squadra, dopo un gennaio balordo, chiude al quarto posto e con il diritto di partecipare al turno preliminare di Champions League. Moratti ha passato le consegne di presidente a Giacinto Facchetti, il primo calciatore della storia nerazzurra ad arrivare al gradino più alto della Società. Il progetto per il futuro porta il nome di Roberto Mancini, ex "numero dieci" della Sampdoria dello scudetto, ex professore della qualità tecnica che Moratti avrebbe voluto portare all'Inter, come calciatore, tra il 1995 e il 1997.
Attorno alla freschezza del giovane tecnico e alla sua voglia di regalare alla Società finalmente una grande vittoria, l'Inter parte nell'estate 2004 alla caccia di un nuovo sogno, con Adriano "l'Imperatore" scatenato in attacco, con Vieri rigenerato e ultra centenario nei gol di colore nerazzurro, con Martins sempre più campione. Il futuro, nella vita come nelle storie di pallone, è sempre un'ipotesi. Per i veri tifosi (in costante aumento, come dimostrano gli ultimi sondaggi che certificano almeno 8 milioni di fans) l'Inter sarà sempre e comunque un amore bello e insostituibile.

I nostri giorni


Il calcio è storia, tradizione, ricordo, è passione come un “Ti amo” scritto sul muro di uno stadio. Il calcio è realtà aggiornata e proiettata nel futuro. Il presente vincente dell’Inter è la Coppa Italia Tim, conquistata al termine della stagione 2004-’05 superando, nella doppia finale del 12 e 15 giugno 2005, la Roma. I nerazzurri tornano ad alzare un trofeo, il secondo dell’èra Massimo Moratti, il primo di Giacinto Facchetti presidente, davanti ai propri tifosi, al termine di un viaggio incoraggiante sotto la gestione tecnica di Roberto Mancini.
La coppa nazionale torna nella bacheca nerazzurra dopo 23 anni e il popolo dello stadio “Giuseppe Meazza”, la sera di mercoledì 15 giugno, si veste per le grandi occasioni e anima una festa tanto importante quanto dal significato preciso. “La nostra speranza – ripetono in coro dirigenti, tecnici, calciatori e gli stessi tifosi – è che questa Coppa Italia possa essere l’inizio, la base di partenza per tanti altri successi”. La speranza è concreta, visto il rendimento della squadra di Mancini che ha vinto il trofeo nazionale senza conoscere sconfitte, aggiudicandosi la finale d’andata allo stadio “Olimpico” con una doppietta di Adriano e quella di ritorno con una rete su punizione di Sinisa Mihajlovic, aggiungendo al titolo di gruppo quello di Obafemi Martins, capocannoniere della manifestazione con 6 reti in altrettante partite.



La vittoria della Coppa Italia Tim vuole e può essere il fischio d’inizio perché Mancini, nella sua prima stagione sulla panchina nerazzurra, ha costruito gioco e mentalità, gruppo e capacità di resistere alle difficoltà incontrate lungo il percorso. Significativo un dato: l’Inter, in 58 gare ufficiali della stagione ’04-’05, ha perso solo quattro incontri, due in campionato (derby di ritorno con il Milan deciso da un rimbalzo a favore di Kakà; a Messina dopo aver dominato la scena) e due in Champions League, nei quarti di finale, 2-0 per i rossoneri nella gara d’andata, 3-0 a tavolino dell’Uefa in quella di ritorno dopo la sostenzione della gara per lancio di fumogeni. “In verità – commenta Mancini – non siamo mai stati messi sotto da nessun avversario, neppure negli scontri diretti che non abbiamo vinto”.



La Coppa Italia Tim, meritata sul campo senza soffrire più di tanto la Roma di Francesco Totti e Antonio Cassano, arriva al termine di una stagione caratterizzata nella prima parte da troppi pareggi in campionato (alla fine saranno 18, “e sono quelli che ci hanno penalizzato nella corsa scudetto”, dirà Mancini), da alcune rimonte entusiasmanti (da 0-2 a 2-2 con la Juventus e da 0-2 a 3-2 con la Sampdoria a Milano), dall’abbondanza realizzativa (105 gol in 58 gare), dal secondo successo consecutivo in campionato nella Torino bianconera, dalla scalata alle classifiche di rendimento - anche difensivo – da fine di novembre a giugno. “Con la vittoria della Coppa Italia sembra di aver rotto un incantesimo”, annota Massimo Moratti preparando l’Inter che sarà.
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